Mamoiada sorge tra le montagne della Barbagia e, oltre alle particolarità naturalistiche e linguistiche, si contraddistingue grazie alle antiche tradizioni che ancora oggi vengono tramandate e tenute in vita, prima tra tutte quella del Carnevale. Mamoiada è stata, inoltre, culla di tante civiltà, a partire dal neolitico di cui si trovano testimonianze nei suoi nuraghi, domus de janas, dolmen e menhir tra cui Sa Perda Pinta o Stele di Boeli, manufatto unico in tutta la regione.
Il carnevale di Mamoiada, grazie ai suoi riti atavici e suggestivi, è tra i più particolari della Sardegna. La festa è ancora strettamente legata alla tradizione, perciò non vi sono incursioni di carri colorati o di mascheramenti moderni, ma è piuttosto l’occasione per fare un salto nel tempo e rivivere il passato.
In quest’occasione si indossa il costume sardo tradizionale e si sfila per la città insieme alle maschere tipiche del carnevale mamoiadino e si suona e si balla sulle note della musica sarda. Più che una banale sfilata di maschere, quella di Mamoiada è una cerimonia quasi solenne, composta da gruppi mascherati ordinati e dal carattere religioso.
Il carnevale si rinnova da secoli, senza però lasciare dietro di sé documenti scritti che possano raccontarci le sue origini. Ogni anno il carnevale inizia in occasione della festa di Sant’Antonio Abate (16-17 gennaio) e dura per due mesi fino a martedì grasso.
Spunti narrativi
Le maschere sono il simbolo della città e ad esse è dedicato il Museo delle Maschere Mediterranee. I Mamuthones fanno la loro uscita annuale in occasione della festa di Sant’Antonio Abate che in antichità altro non era che un rito propiziatorio per la successiva annata agraria. Essi indossano una maschera di legno nera intagliata e dai tratti molto marcati. Sono avvolti in pelli ovine e trasportano sulle spalle trenta chili di campanacci (sa carriga) che suonano, con un forte clangore, scrollando le spalle con dei salti decisi, voltandosi prima a destra e poi a sinistra. Sfilano in gruppi da dodici che rappresentano i mesi dell’anno, avanzano ordinatamente in due file parallele.
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I campanacci sono disposti in ordine decrescente, con in alto quelli più grandi. Alcuni più piccoli sono legati in una cintura di cuoio sul davanti. Fino a qualche anno fa, i campanacci venivano regalati dai pastori, che riciclavano così quelli più malandati. Questi sono dei pezzi di artigianato unici e non è raro che i batacchi siano costruiti utilizzando ossa di animali.
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Intorno alla figura dei Mamuthones ci sono tantissime teorie, nessuna di queste però confermata. Sembra però da escludere che la loro danza sia derivata da riti dionisiaci, e che sia piuttosto un richiamo al passaggio delle stagioni, che si lega proprio alla ricorrenza della loro prima uscita.
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Le leggende intorno alla figura dei Mamuthones sono tantissime e si perdono nella storia. Secondo alcuni rappresentano la figura del bue sardo, o una personificazione di un Minotauro regionale o, ancora, sarebbero il simbolo di un rito nuragico di venerazione degli animali in segno propiziatorio per il raccolto. Un altro racconto, invece, li vede come frutto della visione di un pastore che aveva erroneamente masticato foglie di stramonio, una pianta allucinogena. Nelle sue visioni scambiò il compare per una figura demoniaca e pensò che il suono dei campanacci del suo gregge venisse da quel demone. Tornato a casa mise su carta la figura che aveva visto e ne tramandò il mito.
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Secondo alcuni l’incedere ordinato dei Mamuthones ricorda quello dei prigionieri legati con delle catene, così come il ritmo dei campanacci ne riprodurrebbe il suono. La stessa maschera, che potrebbe sembrare distorta dal dolore o dal riso, confermerebbe lo stato di schiavitù: potrebbero essere sia soggetti sacrificali di origine greco-romana o guerrieri presi come prigionieri dai sardi durante le guerre di invasione.
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Gli Issohadores guidano i Mamuthones nelle sfilate, ma si distinguono per gli abiti più eleganti e preziosi e per la maschera bianca e liscia senza espressione. Il loro vestito bianco e rosso è chiamato dai più anziani vest’e turcu (vestito da turco), ha dei bottoni in oro ed è correlato ad una cintura di pelle a cui sono appuntati dei piccoli sonagli. Il loro nome deriva dalla soha, la fune che portano sempre con sé e con cui prendono a lazo donne e uomini tra il pubblico, le prime come augurio di salute e fertilità e i secondi in segno di affetto. Si pensa che originariamente la fune fosse usata per catturare la donna amata. La loro origine sembra essere invece più recente di quella dei Mamuthones e quindi di derivazione spagnola.
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Al crepuscolo i Mamuthones e gli Issohadores visitano delle famiglie del paese, un omaggio considerato un grande privilegio. Essi compiono dei giri attorno al tavolo della cucina e consumano con i padroni di casa dolci e vino. Il cibo, declinato soprattutto in queste due forme, è parte essenziale della festa e viene spesso offerto ai passanti anche dalle soglie delle case.
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Altra figura caratteristica del carnevale mamoiadino è Juvanne Martis Sero, che fa la sua comparsa il martedì grasso. Il personaggio è un fantoccio vestito con abiti sardi, camicia bianca, giacca in velluto e berritta, che viene trasportato in giro su un carretto. La sua storia viene raccontata come una commedia: inizialmente moribondo, colpito da un male inspiegabile, tutti si affannano per comprenderne le cause. I parenti si affollano intorno al carro, piangenti e vestiti già a lutto. Finti dottori e chirurghi le tentano tutte per rianimarlo, trapanandogli il cranio, effettuando trasfusioni di sangue, che in realtà è vino, chiesto porta a porta, e eseguendo un intervento durante il quale le budella vengono tolte dal corpo. Questo risulterà fatale e Juvanne morirà compianto da tutti. Il vino donato in precedenza viene bevuto mentre si innalza il lamento funebre in onore del deceduto. Il fantoccio rappresenta la fine del carnevale e della gioia che esso porta.
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Alcuni giovani indossano poi sas mascheras de cuaddu, le maschere di cavallo, accompagnate da abiti eleganti sempre appartenenti alla tradizione sarda. Essi sfilano per il paese a cavallo, anch’esso riccamente decorato con sonagli, nappe colorate e selle ricamate.
Spunti videoludici
Le maschere sono qualcosa di affascinante e misterioso, oggetti in grado di dissolvere l’identità di chi le indossa e di trasformarlo agli occhi del mondo. Sarebbe interessante sviluppare questo concetto, specie dentro una tradizione ricca di leggende come questa di Mamoiada. L’immaginario carnevalesco richiama anche avventure ambientate tra presente e passato con culti antichi da scoprire e sette mascherate che si muovono nell’ombra. I Mamuthones potrebbero essere benissimo anche i personaggi di un picchiaduro folcloristico, ricco di costumi e potenziamenti mentre il clima mangereccio della festa potrebbe far pensare ad un videogame culinario. La figura di Juvanne Martis Sero, il fantoccio di carnevale, è invece un esempio perfetto di come potrebbe essere utilizzata la realtà virtuale, sorta di maschera videoludica, con un videogioco in cui operare il fantoccio per salvarlo dalla sua prematura dipartita.
Fonti e link
[Bibliografia]
Giulio Angioni, Il carnevale di Mamoiada, Sagre, riti e feste popolari della Sardegna, Cagliari, Janus, 1987 e Roma, Newton Compton, 2002.