Descrizione
Il Ghetto di Bologna è un quartiere del capoluogo di regione emiliano, dove nel corso della seconda metà del XVI secolo venne alloggiata forzatamente la comunità ebraica. Il Ghetto, un tempo delimitato dal resto della città, è ora integrato col resto del centro storico, pur mantenendo strade strette e tortuose, passaggi sospesi, ponti coperti e finestre piccole, elementi architettonici tipici del Cinquecento. L’area dell’ex-ghetto ospita oggi il Museo Ebraico di Bologna.
Cenni storici
La presenza ebraica a Bologna è attestata almeno a partire dalla metà del XIV secolo: inizialmente ben tollerata, la comunità si insediò nell’area tra via S. Vitale e piazza S. Stefano, nonché nei pressi di via del Mercato (oggi via Rizzoli), area molto popolata, sede della cattedrale cittadina e dell’Università. A seguito dell’emanazione della bolla Cum nimis absurdum, con cui Papa Paolo IV decretava la segregazione urbana degli ebrei, venne individuata un’area nel centro di Bologna dove imporre la residenza forzata della comunità ebraica. Il “Serraglio degli ebrei”, poi “Ghetto”, venne definito tra via Cavaliera (oggi via Oberdan) e via San Donato (oggi via Zamboni), area non molto distante da quella abitata tradizionalmente ma priva di luoghi significativi. Il Ghetto fu attivo dal 14 luglio 1555. Un anno dopo l’emanazione della bolla, il Ghetto era circondato da mura e portoni, che impedissero i contatti considerati “non necessari” tra ebrei e cristiani. Il quartiere venne effettivamente chiuso solo 11 anni più tardi. Il 26 febbraio 1569 venne emanata la bolla Hebraeorum Gens”, firmata da Pio V, a seguito della quale gli ebrei furono costretti a lasciare i territori governati dalla Santa Sede, Bologna compresa. Le mura vennero abbattute e i portoni eliminati. Nel 1586 fu permesso agli ebrei di rientrare in città ma nel 1593 furono definitivamente cacciati. Dopo l’ultima, definitiva, espulsione, gli ebrei non vissero più stabilmente a Bologna se non agli inizi dell’Ottocento, quando iniziò a ricostituirsi una comunità locale.
Focus narrativi
Via dell’Inferno era la via principale del Ghetto, dove confluivano un intreccio di vie secondarie. Le origini del cupo nome derivano probabilmente dalla presenza originaria di numerose botteghe di fabbri, che generavano fumi e calore. Al civico 16 vi era la sinagoga, edificio centrale della comunità ebraica: danneggiata irrimediabilmente durante i bombardamenti del 1943, venne dismessa e ricostruita altrove. Oggi, una lapide commemorativa posta sulla parete esterna, ricorda le sfortunate vicende della comunità ebraica nel XVI secolo e durante le persecuzioni razziali degli anni 1938-45.
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Entrando nel Ghetto da piazza di Porta Ravegnana, si prende Via de’Giudei. La via era un tempo un frenetico crocevia, dove si aprivano le attività di mercanti, banchieri e cenciaioli, professioni storicamente svolte da ebrei perché le uniche a loro permesse. Via de’Giudei deve il nome alla presenza di famiglie ebree ancora prima della creazione del Ghetto. Negli anni delle leggi razziali fasciste, il toponimo venne cambiato in via delle Due Torri, in riferimento ai due torrioni che si ergono nello spiazzo di Porta Ravegnana.
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Il Ghetto era completamente separato dal resto del tessuto urano, cinto da mura e porte, che venivano chiuse dopo il tramonto e riaperte al mattino, per permettere agli ebrei di recarsi al lavoro. Gli ingressi al quartiere si aprivano uno all’inizio di via de’ Giudei, uno in via Oberdan (al tempo via Cavaliera) e un terzo all’incrocio tra via del Carro e via Zamboni. Quest’ultimo è ancora riconoscibile grazie ad un voltone che collega la chiesa di San Donato all’antico palazzo Manzoli, poi Malvasia. Si racconta che i proprietari del palazzo, attraverso una cannula inserita nella bocca del mascherone della volta, versavano fiumi di vino ai passanti in occasione della nomina a gonfalone di un membro della famiglia.
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La forma urbis del Ghetto ricorda curiosamente una mano aperta, dove via Rizzoli è il fondo del pamo, via Oberdan segue la linea del mignolo mentre via Zamboni quella del pollice.
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La presenza ebraica fu profondamente radicata in molte località dell’Emilia-Romagna e in particolar modo a Bologna. Nei secoli IV e V, nel periodo di maggior floridezza, la comunità ebraica non venne confinata ma anzi liberamente inserita nelle zone più affollate del sistema urbano bolognese. Bologna fu importante centro di studi ebraici: nel 1488, infatti, l’università cittadina istituì una cattedra di ebraismo. Dal 1525, invece, Ovadyah Sforno, eminente rabbino, medico, intellettuale, commentatore della Bibbia e filosofo, fondò e diresse una scuola di studi talmudici, fino alla sua morte nel 1550. In Piazza Santo Stefano è ancora presente il palazzo che ospitò l’abitazione della famiglia Sforno, originaria di Barcellona e trasferitasi a Bologna nel XV secolo.
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Il Museo Ebraico di Bologna è stato inaugurato in via Valdonica nel maggio del 1999, allo scopo di conservare, studiare e valorizzare il patrimonio culturale della comunità ebraica dell’Emilia-Romagna e di Bologna. Nel Museo è presente una mostra permanente, che ripercorre 4000 anni di storia del popolo ebraico attraverso oggetti sacri, suppellettili e testimonianze provenienti d sinagoghe, ex ghetti e cimiteri. È presente anche una biblioteca, che ospita 2000 volumi e un archivio documentario.
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Nell’area del Ghetto, all’angolo tra vicolo Mandria e vicolo Tubertini, si erge Torre Uguzzoni. Alta trentadue metri, la torre venne innalzata per volontà dei ghibellini Uguzzoni, tra il XII e il XIII secolo ed è una delle 20 torri gentilizie della città.
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Altro punto di riferimento del quartiere è Piazza San Martino, slargo che si apre davanti al sagrato dell’omonima chiesa del XIII secolo. Al centro della piazza si erge la Statua della Madonna del Carmine, del 1705, posta sulla cima di una colonna. Anticamente, in quest’area scorreva il torrente Aposa, che occorreva attraversare con un ponticello per accedere ala chiesa; venne coperto nel corso del Quattrocento. All’interno della chiesa sono conservate preziose opere d’arte, tra cui dipinti di Paolo Uccello, Amico Aspertini e Ludovico Caracci.
Spunti videoludici
Il Ghetto di Bologna è un luogo rimasto pressoché immobile nel tempo, nel quale è possibile ripercorrere alcuni dei capitoli più avvilenti e bui della storia europea. Seppur ormai integrato con il resto del tessuto urbano, il quartiere presenta numerosi indizi che ci ricordano della segregazione degli ebrei e delle varie forzature che vennero loro imposte. Il Ghetto è lo scenario perfetto per una narrazione che voglia raccontare della vita quotidiana delle famiglie ebree bolognesi del XVI secolo, di come da una situazione di floridezza e piena integrazione si sia improvvisamente entrati in una lunga fase di razzismo e sospetto, costruendo, magari, un paragone con quanto avvenuto secoli dopo negli anni Quaranta.
Come detto, la comunità ebraica in Emilia-Romagna fu numerosa, diffusa e florida per lungo tempo, prima dell’emanazione della bolla Cum nimis absurdum. Partendo dal Ghetto e appoggiandosi alla documentazione presente nel Museo Ebraico, si può raccontare la storia degli ebrei nella regione, con particolare attenzione a Bologna, valorizzando l’apporto dato alla società e alla cultura emiliano-romagnola.
Sebbene il nome Via dell’Inferno abbia una spiegazione più che sensata, è facile farsi trasportare dalla fantasia: e se il nome della strada principale di questo quartiere tormentato indicasse un modo per accedere davvero all’inferno? La presenza nei secoli passati anche di un vicolo del Purgatorio e un vicolo del Limbo (che mettevano in comunicazione via dell’Inferno con via Oberdan) alimenta il senso di mistero. Le tortuose strade del Ghetto, che dall’alto ricordano una mano aperta o una mano di Fatima, possono essere un’ambientazione dalle tinte esoteriche e occulte, per una storia pulp/fantasy o per ispirare enigmi che prendano a prestito la simbologia ebraica.
Fonti e link
[Biliografia]
– AA.VV., Luoghi ebraici in Emilia Romagna, Milano, Touring Club Italiano, 2002
[Sitografia]
Museo Ebraico di Bologna
Comunità ebraica Bologna