Descrizione
L’Eremo di Camaldoli, casa madre della congregazione benedettina dei camaldolesi, si trova sull’Appennino Tosco-Romagnolo all’interno del parco nazionale delle Foreste Casentinesi, Monte Falterona e Campigna e sorge a 1100 metri di altitudine, a pochissima distanza dal crinale appenninico.
San Romualdo, che già aveva fondato diverse comunità eremitiche nell’Italia centrale, nell’XI secolo giunse qui, nelle foreste casentinesi, e si stabilì in una radura chiamata Campo di Maldolo (Campus Maldoli), da cui il nome della congregazione.
La comunità monastica si divide tra l’eremo e il monastero che sorge a poca distanza dall’eremo stesso a circa 800 metri di altitudine: i monaci dell’eremo e del monastero vivono tutti la stessa regola, ma hanno stili di vita leggermente diversi, privilegiando la vita comunitaria nel monastero e il raccoglimento personale all’eremo.
L’eremo di Camaldoli si trova non lontano dal santuario francescano della Verna (vai alla scheda) raggiungibile anche a piedi attraverso un suggestivo sentiero (33km) che si snoda tra i boschi e il crinale tosco-romagnolo; racconta una tradizione che alla consacrazione della nuova chiesa dell’eremo assistette anche San Francesco d’Assisi.
Cenni storici
San Romualdo, nato a Ravenna tra il 951 e il 953, figlio del duca Sergio degli Onesti, dopo una breve permanenza all’età di venti anni nell’antico monastero di Sant’Apollinare in Classe, conosciuto l’abate Guarino, uno dei più importanti monaci rifondatori del X secolo, lo seguì, non ancora trentenne, nell’abbazia di San Michele di Cuxa, in Catalogna, dove Romualdo si fermò una decina di anni e terminò la sua formazione.
Ritornato in Italia nel 988, condusse inizialmente vita eremitica nell’eremo di Pereo, presso Ravenna e successivamente fondò sull’Appennino romagnolo vicino a Verghereto un monastero in onore di San Michele Arcangelo. Intorno all’anno 1002 si recò al monastero benedettino di Montecassino e dopo aver vissuto per un certo periodo vicino Parenzo in Istria nel 1014 fondò un eremo a Sitria nel comune di Scheggia (Pg).
Verso il 1023 giunse nel Casentino e dopo aver fondato l’eremo di Camaldoli, incoraggiato dal vescovo di Arezzo, vi eresse un piccolo oratorio e 5 celle che ben presto divennero 15; la comunità adottò la regola di San Benedetto e prese il nome dal luogo: la congregazione camaldolese nacque così.
Romualdo visse circa 75 anni e morì, in solitudine, il 19 giugno tra il 1023 e il 1027 vicino a Fabriano.
Dell’antico oratorio fondato da San Romualdo e dedicato a San Salvatore Trasfigurato non c’è più traccia; su quello stesso luogo oggi si trova la chiesa dedicata sempre a San Salvatore Trasfigurato ma costruita nel XIII secolo e poi restaurata varie volte fino alle trasformazioni in stile barocco effettuate tra il XVI e il XVII secolo.
Focus narrativi
Al centro dell’eremo, quasi a rappresentare il fulcro della vita del monaco, la preghiera, sorge la chiesa, dedicata a San Salvatore Trasfigurato.
A sinistra si trova la Lavra, così come è chiamato nei monasteri ortodossi d’Oriente, l’insieme delle celle monastiche; nella cella l’eremita passa gran parte della sua giornata lavorando, studiando e pregando. La struttura delle celle, che prende come modello quella di San Romualdo, è “a chiocciola”; questa configurazione oltre a simboleggiare il percorso interiore del monaco di “ritorno” in se stesso è la forma architettonica migliore per difendere l’ambiente dai rigori del clima.
Le celle, che si sviluppano al solo piano terra, con annesso un orto recintato, presentano diversi ambienti: un portico, il vestibolo, la camera, lo studio, l’oratorio, la legnaia e il bagno. Iniziando dall’esterno si trova il portico che si apre sempre sull’orto dal quale, attraverso uno sportello, il monaco riceve i pasti; da qui si passa al vestibolo, un corridoio di dimensioni tali da consentire al monaco di passeggiare quando a causa di condizioni atmosferiche avverse non può uscire, e abbastanza grande da permettere di allestirvi un laboratorio personale; dal vestibolo si accede infine al centro della chiocciola, nella parte più calda, dove si trova la camera con un armadio a muro, un camino e il letto incassato nel legno.
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I benedettini, congregazione alla quale i camaldolesi fanno parte, sono la “memoria” dell’Europa medievale e nei codici trascritti dai loro amanuensi sopravvivono le conoscenze dell’antichità riguardanti, non solo letteratura e filosofia, ma anche scienza e tecnica: si trovano così nozioni sulla bonifica delle zone paludose, sulla regimazione dei fiumi, sulla cura e mantenimento dei boschi. L’albero “simbolo” dei camaldolesi è l’abete bianco che, alto e diritto, si slancia verso il cielo; nasce così e si sviluppa la foresta camaldolese che oggi costituisce un nucleo importante del parco nazionale delle Foreste Casentinesi, Monte Falterona e Campigna ed è legata ad una congregazione che ad un altissimo senso di spiritualità coltiva una particolare sensibilità per la cultura e la tecnica.
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La vita dei monaci all’eremo camaldolese si colloca tra uno stile cenobitico e quello anacoretico prendendo gli elementi migliori da ambo le parti e creando un saggio equilibrio tra solitudine e vita comune; lo stemma della congregazione benedettina camaldolese è infatti costituito da due colombe che si abbeverano alla stessa fontana: le due colombe rappresentano la vita contemplativa e la vita attiva che sono le due facce di un’esistenza che è e deve rimanere una sola.
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All’eremo si accede dalla strada con un portone, superando il quale si entra nel cortile; all’interno, interamente circondato da un muro di sasso, si possono individuare alcune aree circoscrivibili e interconnesse con caratteristiche specifiche: la chiesa con il coro monastico, la foresteria, la biblioteca, la sala del capitolo, l’antica cella di San Romualdo, le celle monastiche. Esternamente l’eremo è circondato dalla fitta foresta camaldolese di abeti bianchi alla cui cura, fin dalla loro fondazione, si sono dedicati i monaci camaldolesi.
Spunti videoludici
La vita solitaria dell’ordine rafforza l’autonomia e la circoscrivibilità dell’ambiente di vita dei monaci, con relative conseguenze positive sulla costruzione di un microcosmo videoludico; l’eremitaggio inoltre, da un punto di vista strettamente narrativo, evoca atmosfere di mistero e segreto, intorno a conoscenze e pratiche non accessibili dall’esterno.
L’attività degli amanuensi e la conservazione di antichi testi medievali apre le porte a detective stories à la Il nome della rosa. Questi codici si prestano inoltre ad aprire sezioni puzzle del potenziale videogioco.
La foresta, infine, luogo strettamente collegato con la vita dell’eremo, è un altro ambiente autonomo e correlato a quello principale del monastero; accanto alle atmosfere spirituali degli ambienti strettamente religiosi, la foresta potrebbe contribuire alla narrazione non solo come ambiente esteticamente autonomo ma anche con un portato spirituale suo proprio, magari legato a miti ancestrali o culti ctoni.
Fonti e link
[Bibliografia]
Salvatore Frigerio, Camaldoli. Note storiche spirituali artistiche, Edizioni Camaldoli, 2004
Alberta Piroci Branciaroli (a cura di), Camaldoli: il monastero, l’eremo e la foresta, Edimond, 2003
Carlo Urbinati, Raoul Romano (a cura di), Foresta e monaci di Camaldoli: un rapporto millenario tra gestione e conservazione, Codice forestale camaldolese, INEA, 2012
Maurizio Vivarelli (a cura di), Camaldoli. Il sacro eremo ed il monastero, Octavo, 2000
[Sitografia]
Sito ufficiale