Colobraro - Foto di Pasquale Troccoli, licenza CC-BY-SA-4.0, da Wikimedia Commons

Colobraro

Descrizione

Colobraro è un piccolo borgo della Basilicata arroccato sulla Valle del Sinni noto come “il paese più sfortunato d’Italia”.

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Cenni storici

Sorto su una spelonca rocciosa, il Monte Calvario, che sovrasta la valle del Sinni, Colobraro è un tipico borgo del sud a vocazione contadina. Il suo nome deriverebbe dal latino colubrarium (luogo di serpenti), ad indicare la natura spoglia e selvaggia della zona.

Le origini del borgo sono legate al monastero basiliano di Santa Maria di Cironofrio. Fu soggetto alla giurisdizione della Badia di Santa Maria di Cersosimo finché, nel Trecento, divenne feudo di Bertaimo d’Andria, per poi passare ai Conti di Chiaromonte e ai Sanseverino di Tricarico.

Tra Cinque e Seicento il feudo di Colobraro fu proprietà delle famiglie Poderico, Pignatelli, dei Principi di Carafa e, infine, dei Donnaperna. Nel primo Novecento nasce il mito di Colobraro come paese della jella a causa di alcuni episodi (vedi focus narrativi).

Focus narrativi

Colobraro divenne per tutti i paesi vicini “Quel paese” a causa del podestà cittadino, un avvocato che amministrò il borgo a cavallo delle due guerre mondiali. Pare che l’avvocato, messa in dubbio la sua sincerità, abbia giurato di fronte ad alcuni testimoni, dicendo: “se non dico la verità, possa cadere questo lampadario”. Al giuramento avrebbe effettivamente fatto seguito la caduta del suddetto lampadario. Non risultano vittime.

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La sfortuna del borgo, tuttavia, non è legata solo a questo aneddoto ma anche ad alcuni “reportage” che hanno contribuito alla vitalità della leggenda. Nei primi anni Cinquanta, il fotografo Franco Pinna, che aveva seguito l’antropologo Ernesto de Martino in alcune spedizioni nel Meridione, fotografò una donna vestita di nero e dal volto profondamente solcato dal sole. La vecchia contadina, il cui nome era Maddalena La Rocca, passò alla storia come la Cattre, una strega o masciara in grado di produrre fatture e filtri d’amore. Dal canto suo, de Martino, ha riportato di essere stato vittima di diversi episodi sfortunati durante il suo soggiorno a Colobraro.

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Per far fronte alla sinistra fama del paese, gli abitanti di Colobraro organizzano, in agosto, uno spettacolo tra le anguste vie del borgo. Prima della messinscena, ai visitatori viene donato un amuleto o abitino, un sacchettino di stoffa da appendere al collo. In origine l’abitino (in dialetto cincjokk) aveva una doppia valenza di talismano protettivo e strumento per l’affascino: il portatore veniva legato per sempre al donatore da amore; allo stesso tempo era un oggetto propizio da far indossare ai bambini in fasce durante il battesimo e nelle occasioni pubbliche. Al suo interno contiene lavanda, tre chicchi di grano, tre pietre di sale grosso, tre aghi di rosmarino, il tutto chiuso da una spilla (simbolo proprio della “legatura”).

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Un’altra leggenda, legata tanto a Colobraro quanto all’intera Basilicata, parla del monachicchio, il corrispettivo lucano del munaciello napoletano. Il monachicchio discende dai culti pagani dei Lari e dei Penati, è comunemente identificato come un bambino morto prima del battesimo che si diverte a far scherzi e che custodisce tesori sepolti. Così lo descrive Carlo Levi: “I monachicchi sono esseri piccolissimi, allegri, aerei, corrono veloci qua e là, e il loro maggior piacere è di fare ai cristiani ogni sorta di dispetti. Fanno il solletico sotto i piedi agli uomini addormentati, tirano via le lenzuola dei letti, buttano sabbia negli occhi, rovesciano bicchieri pieni di vino, si nascondono nelle correnti d’aria e fanno volare le carte e cadere i panni stesi in modo che si insudicino, tolgono la sedia di sotto alla donne sedute, nascondono gli oggetti nei luoghi più impensati, fanno cagliare il latte, danno pizzicotti, tirano i capelli, pungono e fischiano come zanzare. Ma sono innocenti: i loro malanni non sono mai seri, hanno sempre l’aspetto di un gioco, e, per quanto fastidiosi, non ne nasce mai nulla di grave. Il loro carattere è una saltellante e giocosa bizzarria, e sono quasi inafferrabili. Portano in capo un cappuccio rosso più grande di loro: e guai se lo perdono. Tutta la loro allegria sparisce ed essi non cessano di piangere e di desolarsi finché non l’abbiano ritrovato. Il solo modo di difendersi dai loro scherzi è appunto di cercarli di afferrarli per il cappuccio: se tu riesci a prenderglielo, il povero monachicchio scappucciato ti si butterà ai piedi, in lacrime, scongiurando di restituirglielo. Ora i monachicchi, sotto i loro estri e la loro giocondità infantile, nascondono una grande sapienza: essi conoscono tutto quello che c’è sottoterra, sanno i luoghi nascosti dei tesori. Per riavere il suo cappuccio rosso, senza cui non può vivere, il monachicchio ti prometterà di svelarti il nascondiglio di un tesoro. Ma tu non devi accontentarlo fino a che non ti abbia accontentato; finché il cappuccio è nelle tue mani, il monachicchio ti servirà. Ma appena riavrà il suo prezioso copricapo, fuggirà con un gran balzo, facendo sberleffi e salti di gioia, e non manterrà la sua promessa”.

Spunti videoludici

Il piccolo borgo contadino, con le sue vie strette e le sue case basse e di pietra bianca, si presta a incarnare un piccolo microcosmo chiuso all’interno del quale tutte le suggestioni del folklore lucano sono libere di imperversare. Per questa natura non è difficile immaginare storie che vadano dall’avventura grafica a tema investigativo/sovrannaturale fino a opere più ironiche che giochino con la sfortuna e la tradizione del monachicchio.

[Bibliografia]
Carlo Levi, Cristo si è fermato a Eboli, Einaudi, Bologna, 2010

[Sitografia]
Wikipedia
Corriere della Sera
La Stampa
Basilicata Turistica
Colobraro (PDF)

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