Cimitero monumentale della Certosa

Descrizione

Il cimitero della Certosa di Bologna è il complesso funerario più grande della città. Suddiviso in più campi e chiostri, ospita al suo interno anche il cimitero ebraico e il cimitero degli acattolici. La Certosa conserva un patrimonio artistico inestimabile: pitture e sculture, realizzate da artisti bolognesi e non, raccontano come l’arte nelle diverse epoche abbia trovato sempre una voce nuova e diversa per ricordare chi non c’è più. Il cimitero ospita le spoglie di alcuni tra i personaggi più importanti della città e dell’Italia tutta: il pittore Giorgio Morandi, il premio Nobel per la letteratura Giosuè Carducci, il compositore Ottorino Respighi e il cantante Lucio Dalla, i fondatori delle aziende Maserati, Ducati e Weber e della casa editrice Zanichelli.

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Cenni storici

Il territorio su cui sorge il cimitero monumentale di Bologna è stato sin dall’alba dei tempi un luogo in cui la vita e la morte si incontrano. Vi sorse per prima una necropoli etrusca, sui cui resti venne fondato nel 1334 il monastero certosino, chiuso infine nel 1796 a causa della soppressione degli ordini monastici da parte di Napoleone. Per un breve periodo la struttura fu adibita ad alloggio per i militari, ma la Commissione di Sanità del Reno decise di riutilizzarlo come cimitero. Il cimitero della Certosa venne fondato nel 1801, conservando intatta la chiesa di San Girolamo. Il complesso è stato negli anni espanso in più settori ed è testimonianza dei secoli e degli stili artistici che qui si sono incontrarti e succeduti.

Focus narrativi

La costruzione del cimitero avvenne nel rispetto delle precedenti strutture monastiche, cercando il più possibile di mantenerle integre e riconvertirne l’uso. La chiesa di San Girolamo è rimasta intatta e al suo interno sono conservati gli affreschi che narrano la vita di Gesù realizzati dai maggiori pittori bolognesi del XVII secolo.

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Nel corso dell’Ottocento il fascino della Certosa non era di meno agli altri cimiteri europei ed erano tanti gli artisti che vi si recavano alla ricerca di pace e ispirazione: Charles Dickens e Lord Byron sono solo due tra i tanti.

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Lord Byron rimase molto colpito da un’usanza peculiare. Sin dalla conversione del monastero in cimitero alcune celle monastiche vennero usate per esporre dei teschi, correlati da un cartellino identificativo. Byron riportò un episodio in cui il custode, che definì simile al becchino di Amleto, gli mostrò il teschio di frate Desiderio Berò, un suo carissimo amico, di cui aveva chiesto il cranio ai confratelli dopo la morte. In seguito le celle furono riutilizzate per collocare tombe e monumenti.

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Fanno parte degli aspetti più strani della Certosa i suoi simboli. La tomba, infatti, segna il confine tra il mondo terreno e l’aldilà, tra il passato ed il presente ed è l’ultimo lascito al mondo da parte del defunto. Diventa per questo un vero e proprio contenitore di significati, con cui poter continuare una sorta di vita sociale e mantenere vivi, trasmettendoli alla comunità, i valori e gli ideali in cui si è creduto in vita. Nel sito Storia e Memoria di Bologna è possibile consultare il Dizionario dei simboli funerari completo.

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Abbondano alla Certosa elementi di derivazione egizia. Nel corso del ‘700, infatti, si diffuse in Europa una vera e propria egittomania, in seguito alle imprese Napoleoniche in Medio Oriente. I simboli egizi diventano espressione dei ceti medio-alti legati alla massoneria, cultura spesso opposta alla chiesa. Non è strano quindi ritrovare nel cimitero tanti monumenti privi dei tipici simboli cattolici, che vengono sostituiti da quelli appartenenti ad altre religioni. La Sfinge è uno degli elementi più riprodotti: nell’Antico Egitto ella è infatti la custode di città, templi e necropoli. Nell’immaginario europeo è associata alle età dell’uomo, al suo percorso di vita e al tempo che scorre ed è quindi strettamente connessa alla morte.

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È di origine egizia anche l’uroboro, il serpente che si morde la coda, simbolo esoterico in tante culture del passato. Nel Libro dei morti è definito come Sata, il serpente primordiale che circonda il mondo, difendendolo dai nemici cosmici. Il simbolo ebbe grande fortuna nell’800, se ne trovano tanti esempi alla Certosa (es. tomba di Giovanni Guidi), spesso in associazione con la farfalla o la sfera (spesso si ritrova il globo fasciato che indica il mondo che l’iniziato massonico deve imparare a conoscere, superando le apparenze per elevarsi moralmente). Il serpente simboleggia il tempo che scorre, la continuità, l’autofecondazione, l’eternità e l’eterno ritorno.

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Tra i personaggi più affascinanti qui sepolti vi sono i coniugi Anna Bonaziga D’Amico (1830-1906) e Pietro D’Amico, entrambi cultori del mesmerismo. La teoria era basata sull’esistenza del “magnetismo animale”, della presenza quindi di un fluido nei corpi degli esseri viventi che poteva essere magnetizzato a fini terapeutici. Lei in particolare era una chiaroveggente. Nelle rèclame dei giornali a lei contemporanei era definita la più rinomata del secolo e si diceva che da sonnambula potesse dare consigli su come curare malattie, bastava inviargli una lettera con due capelli e con i sintomi dell’ammalato. A lei sono dedicati due monumenti nella Certosa, in uno di questi i busti dei coniugi sono disposti ai due lati del ritratto della cantante lirica Giuseppina Gargano. La D’Amico ha le orbite vuote come a testimonianza della sua capacità di vedere oltre il mondo dei vivi.

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Non fu soltanto la cosiddetta “scuola cimiteriale” inglese o Edgar Lee Masters a trarre ispirazione dai cimiteri per i propri scritti. Anche in Italia abbiamo diversi esempi di riflessioni sui misteri della vita e della caducità di tutte le cose partite dalla contemplazione dei cimiteri. Anche Bologna può vantare il proprio Foscolo. Nel 1845 Bernardo Gasparini scrisse Due notti alla Certosa di Bologna, una raccolta di cantici in perfetto stile romantico, in cui l’autore dialoga con i fantasmi di illustri concittadini. La passeggiata è ammantata di angoscia e inquietudine, non a caso avviene di notte, momento che condivide con la morte la stessa oscurità. Le liriche hanno un tocco dantesco, infatti tutte le persone con cui dialoga sono morte e si presentano sotto forma di fantasmi per raccontare ad un vivo i misteri della morte. Lodovico Salvioli, poeta e storico bolognese, sarà il suo vate. I fantasmi chiederanno notizie delle persone che hanno lasciato indietro o cercheranno di riscattare il nome di altri defunti. Il marchese Francesco Albergati, per esempio, farà luce sul suicidio della moglie.

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Anche Giosuè Carducci compose nel 1897 un’ode dal titolo Fuori alla Certosa di Bologna, in cui racconta la storia del sito e che conclude con un’invocazione ai vivi rivolta dai morti.

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Riposa alla Certosa anche Olindo Guerini, scrittore satirico bolognese, che nel Canto dell’Odio immagina di maledire e trafugare la tomba per “riuccidere” simbolicamente una donna che non si era concessa a lui.

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Accolgono il visitatore le due statue in terracotta poste sui pilastri del monumentale ingresso. Le Piangenti, che divennero poi simbolo dell’estetica neoclassica, sono due figure imponenti avvolte in panneggi ricchi e pesanti, che si ripiegano su sé stesse, come spezzate dal dolore. Incarnano il dramma della morte e segnano il confine tra vita e morte, quasi ad ammonire chi varca quelle porte.

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La Tomba Frassetto fu realizzata dallo scultore Farpi Vignoli, specializzato inizialmente nella scultura di atleti ma convertitosi all’arte funeraria dopo la Seconda Guerra Mondiale. Sono tante le sue opere conservate alla Certosa, ma la Tomba Frassetto in particolare colpisce per il modo naturale e struggente in cui viene rappresentata la morte. Come in un convivio romano sono disposti uno davanti all’altro il padre Fabio Frassetto (docente universitario) e suo figlio Flavio, morto in guerra. I due si guardano negli occhi, in un dialogo tanto forte quanto muto sul dolore della perdita, resa chiara dal teschio stretto tra le mani del padre.

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Raffinato esempio di stile Liberty è la Cella Magnani. La statua in bronzo, denominata Anima e Angelo, fu completata nel 1906 da Pasquale Rizzoli, su commissione della giovane vedova di Natale Magnani. Sul terreno un prato di rose e gigli da cui si innalzano in volo leggiadri i due amanti, raffigurati come un angelo dai tratti dolci che sostiene tra le braccia l’anima, che a lui si abbandona sicura. Il passaggio dalla vita terrena a quella celeste è straordinariamente sensuale, ma ciò non ne intacca il valore morale dell’opera.

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Pasquale Rizzoli realizzò un’altra tra le statue più interessanti del complesso. Il Genio del Fuoco o Allegoria del Fosforo fu realizzato per la famiglia Pizzoli. Il gruppo marmoreo è costituito da un bell’uomo nudo e vigoroso, avvolto in un intrico di rami di melograno e da fiamme che si sprigionano lambendogli i piedi e che lui osserva affascinato. L’uomo emana sicurezza e non terrore, perché è consapevole di poter domare il fuoco. In cima al monumento spicca il busto di Gaspare Pizzoli, promotore dell’uso del fosforo per fabbricare fiammiferi, morto a soli quarant’anni che ancora la sua tecnica non era stata riconosciuta per buona. Ai piedi della statua una scatola di fiammiferi, una ruota e una pietra focaia. Il melograno è un simbolo presente anche in altri monumenti funebri della Certosa; i frutti indicano fertilità e abbondanza, ma nella tradizione cristiana ha assunto il valore di immortalità e resurrezione.

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Il Monumento Comi realizzato per Filippo Comi dallo scultore Giorgio Kienerk è suddiviso in due livelli. Nel primo, sullo sfondo, campeggia una croce dorata attorno alla quale si sviluppa il bassorilievo allegorico La Parabola della vita umana, dalla giovinezza alla vecchiaia. Nel secondo livello la statua a tutto tondo in primo piano è quella della Rassegnazione, che tiene in mano un cartiglio con un passo della Genesi: memento homo quia pulvis es. L’opera intera sottolinea la temporalità dell’esistenza umana.

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Colpisce per il suo realismo il Monumento a Raffaele Bisteghi, collocato nella Galleria degli Angeli e realizzato da Enrico Barberi. Il gruppo marmoreo pare uno scatto rubato alla vita quotidiana e ha una disposizione più vicina alla pittura che non alla scultura. La scena è drammatica. Sul letto è riverso il moribondo, dal viso stanco e scavato dall’agonia. Troneggia su di lui un angelo con la mano tesa, pronto a guidarlo in un’altra vita. Ai piedi del letto la moglie prega affranta.

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È la storia di un sogno quella dietro al Monumento Simioli realizzato da Tullo Golfarelli. La statua blocca per sempre nel marmo un fabbro in un momento di pausa dal lavoro, con il martello poggiato sull’incudine. L’uomo ha uno sguardo fiero, indossa indumenti semplici e a proteggerli un grembiule di cuoio. Sul basamento la scritta “labor” che non solo rimarca la fatica e la fierezza del lavoro, ma si ricollega anche alle lotte sociali e di classe. La statua raffigura, appunto, Gaetano Simoli, fabbro del municipio di Bologna che risparmiò tutta la vita per realizzare il suo sogno, quello di un monumento che avrebbe tenuto viva la sua memoria e il suo lavoro per sempre.

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Il Monumento – Ossario ai Caduti Partigiani fu inaugurato nel 1959 e fortemente voluto dal sindaco Giuseppe Dozza che partecipò alla liberazione di Bologna. L’opera è costituita da un tronco di cono in cemento con una base sotterranea a cui si accede da due scale. Sotto sono disposte in cerchio le tombe dei partigiani, mentre sotto il cono si allarga una vasca d’acqua da cui escono cinque figure in bronzo. Altri corpi si arrampicano lungo il cono, sul cui bordo all’esterno si ergono in piedi altre statue: dopo aver lottato ed esser morti per essa, i partigiani si risvegliano con il ritorno della democrazia. Lungo il cono in alto si legge: liberi salgono nel cielo della gloria.

Spunti videoludici

I cimiteri esercitano nell’uomo un fascino magico. Questi luoghi sono infatti legati al più grande ed ineluttabile mistero a cui l’uomo non ha ancora trovato risposta: la morte. I cimiteri non solo tengono vivo il ricordo degli affetti più cari, rafforzando al contempo la memoria collettiva, ma generano anche paure e timori, attorno ai quali non possono mancare storie bizzarre di apparizioni, fantasmi e pratiche magiche ed esoteriche. Un walking simulator dalle atmosfere horror ma che si divide tra storia e memoria.

La Certosa di Bologna è poi un vero e proprio museo a cielo aperto, ricco di storie e racconti da scoprire e che conserva al suo interno tantissimi esempi di arte ottocentesca e novecentesca. Ispirandoci al poema di Bernardo Gasparini, ad esempio, potremo immaginare il cimitero della Certosa come un immenso hub che può diventare un luogo di redenzione per tante anime che in vita non sono riuscite a riscattarsi. A terminare la loro opera sarà il giocatore che affrontando tantissime sub-quest porterà i messaggi dei defunti ai vivi permettendo loro di lasciare finalmente la terra.

Vista la grande presenza di personaggi illustri, è interessante valutare anche la possibilità di incontro/scontro tra i maggiori scrittori romantici e gotici, che si sfideranno a colpi di opere e poemi.

E infine, perché non pensare anche ad un videogame gestionale? Un gioco in cui costruire grandi strutture funerarie con statue giganti e impotenti fino ad esaudire tutte le richieste delle anime defunte.

[Bibliografia]

Roberto Martorelli, Certosa di Bologna. Guida, Minerva, Bologna, 2016.

[Sitografia]

Atlante di cimiteri storici monumentali d’Italia
Storia e Memoria di Bologna

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