Descrizione
L’isola di Lipari misura in totale poco meno di 40 km² e la sua ridotta vastità non rende giustizia alla storia millenaria di cui gode l’isola. Per quanto possa essere poco vasta l’isola, indipendentemente da quale sia il punto di approdo, è impossibile non notare anche solo in fase di avvicinamento il Castello di Lipari in tutto il suo splendore. Il castello – o la rocca – sorge su un promontorio naturale di roccia vulcanica formatasi 40000 anni fa e si affaccia sul mare, a 50 metri di altezza. È circondato da imponenti mura costruite da Carlo V dopo un’incursione di pirati che ridussero in schiavitù quasi tutta la popolazione. Le mura fanno ben comprendere come questo insediamento fosse l’elemento difensivo assoluto dell’isola, ma l’edificio non ebbe solo questa finalità. Il castello fu fino a pochi secoli fa sede della città e dei suoi nuclei abitativi, di cui oggi rimangono pochi resti. Ma all’interno di questo agglomerato di edifici si trovano cinque chiese, un anfiteatro e un’antica necropoli. Solo la descrizione di questi edifici fa ben comprendere quanto sia riduttivo il termine castello e come, in realtà, questa rocca non fu solo un edificio difensivo ma anche ritrovo di persone e attività.
Cenni storici
La storia del castello di Lipari comincia addirittura nel Neolitico. Infatti, la presenza di vita è testimoniata da vari insediamenti, col tempo sovrapposti fra loro. Di quest’epoca rimangono ancora oggi le capanne a pianta ovale, costruite con pietre a secco, pavimenti plasmati con argilla cruda e con tetti fatti di ginestra. Fra il 2300 a.C. e il 1300 a.C. la presenza di vita è testimoniata diffusamente, ma a questo punto l’isola venne abbandonata e i villaggi rasi al suolo. Si insediò poi, per altri trecento anni fino ad arrivare al 900 a.C. un nuovo gruppo etnico, chiamato Ausonio. L’isola divenne poi un insediamento greco, ad opera di coloni di Cnido e Rodi, e successivamente si ritrovò all’interno dello scontro fra Roma e Cartagine. L’isola inizialmente si schierò dalla parte di Cartagine e finì nel mirino degli interessi di Roma che, dopo una sonora sconfitta sul mare inflitta dai ben più preparati Cartaginesi, riuscì a conquistarla lasciando comunque gli abitanti dell’isola come uomini liberi e riservando loro il diritto di coniare moneta.
Per quel che riguarda i periodi successivi, l’isola condivide le caratteristiche della Sicilia: un numero molto alto di conquistatori e intrusi. Nel periodo medievale l’isola di Lipari venne insediata prima dai Bizantini – dal V fino al IX secolo – e successivamente dagli Arabi, che la controllarono dall’829 fino al 1062. Per gli Arabi Lipari rappresentò per lo più un presidio militare. Ripararono al meglio le fortificazioni distrutte e le ampliarono con qualche torre, ma non crearono ulteriori modifiche all’assetto del castello come fecero invece i Normanni. Questi ultimi arrivarono nell’XI secolo a Lipari, fortificarono pesantemente il castello e fondarono il Monastero di San Bartolomeo, il cui culto è ancora oggi molto importante a Lipari. Nei successivi due secoli ci furono occupazioni di Svevi, Aragonesi e Spagnoli.
Il re degli Spagnoli, Carlo V, costruì le attuali mura di difesa in seguito all’incursione dei corsari turchi capitanati da Khayr al-Din Barbarossa, che già da decenni seminavano il panico fra le isole Eolie e questa porzione di mediterraneo. Lipari entrò poi a far parte del Regno delle Due Sicilie e infine dello Stato italiano. Sotto il fascismo fu località di confino per civili italiani e stranieri e dopo la Seconda guerra mondiale visse insieme a tutto il resto delle Eolie, un periodo di rinascita culminato negli anni ’90 e nei primi decenni del XX secolo come meta turistica privilegiata e culla dei più importanti personaggi del momento.
Focus narrativi
Nel 1544 l’isola di Lipari dovette soccombere all’attacco dei corsari turchi e del loro ammiraglio, Khayr al-Din detto Barbarossa. È curioso pensare che in realtà questo pirata venne mandato nei mari italiani dal sovrano turco Solimano il Magnifico in qualità di alleato del re francese Francesco I contro lo strapotere di Carlo V, da anni re di Spagna portatore della corona imperiale di Germania. L’attacco a Lipari fu uno degli ultimi assalti ai danni delle città di dominio spagnolo e dei loro alleati, ma non per questo fu un attacco leggero. La città di Lipari era inoltre stata avvertita: Francesco I, ricordandosi di essere cristiano, insistette perché Barbarossa facesse ritorno in patria convincendolo con tanto oro e oggetti preziosi. Ma sulla strada di ritorno il pirata sarebbe passato davanti a Lipari e il vicerè di Napoli inviò un messo alla città per avvertirla del rischio che stavano correndo. I liparesi si apprestarono ad affrontare l’assedio, cercando anche aiuto dalle città vicine. Aiuto che non arrivò, per diversi motivi. La città di Napoli rispose alla chiamata assicurando truppe solo nell’eventualità in cui i liparesi stessi si facessero carico delle spese, cosa per loro impossibile. L’idea invece di chiedere aiuto a Messina non fu perseguita per volontà degli stessi abitanti di Lipari, convinti di poter farcela da soli e di non dover chiedere aiuto a una città con cui erano in non ottimi rapporti. Un contingente di navi da Milazzo arrivò in aiuto ma fu prima intercettato e poi messo in fuga dagli stessi turchi. Arriviamo quindi al primo luglio del 1544 quando, dopo aver già saccheggiato l’isola d’Elba, la flotta di Barbarossa si posizionò ad assediare l’isola di Lipari e più precisamente il castello, dove gli abitanti assediati si erano rifugiati. L’assedio durò dodici giorni in cui le cannonate proseguirono costantemente, prima da ambo le parti poi solamente da parte delle navi di Barbarossa che dimostrarono il secondo giorno di essere in grado di distruggere le fortificazioni. Già dopo un giorno di cannonate si procedette alle trattative di pace, ma non riuscendo a trovare un accordo Barbarossa bombardò l’isola per tutto il tempo, fino a saccheggiarla. Il saccheggio però non fu la parte più tragica. Il bilancio delle vittime è di 343 morti fra i turchi e 160 fra gli abitanti di Lipari, ma gli abitanti fatti schiavi furono secondo le fonti più di 10.000 e i danni al castello furono enormi. Basti pensare che furono impiegate sedici bocche da fuoco, tantissime per l’epoca, e nell’assedio più di 5000 soldati. Se il numero di 10.000 schiavi può essere alto, rende comunque l’idea di come l’assedio e la resa in schiavitù di buona parte della popolazione abbia devastato l’isola e i suoi abitanti. Non a caso, dopo questo avvenimento, Carlo V decise di far costruire le mura del castello che ancora oggi si stagliano sul mare. Le mura inglobarono le torri di età normanna e abilitarono diversi nuovi punti di difesa.
***
Come detto in precedenza, il castello fu per molto tempo centro della vita cittadina e contenitore delle abitazioni di buona parte dei cittadini di Lipari. A testimonianza di questo ruolo sociale sono rimasti diversi edifici, fra cui contiamo cinque chiese. La più antica di queste è la cattedrale, dedicata a San Bartolomeo, fondata dai normanni nel XII secolo – fortemente voluta da Ruggero d’Altavilla – e ricostruita dopo l’attacco di Barbarossa. L’attuale facciata fu realizzata appena conclusasi l’unità del Regno d’Italia, insieme al campanile che non fu completato. Il sovrano normanno fu anche promotore della costruzione di un chiostro Benedettino-Cluniacense, primo edificato in tutta la Sicilia. L’idea di costruire il monastero fu presa di comune accordo con Roberto il Guiscardo, fratello maggiore di Ruggero passato a miglior vita prima dell’effettiva costruzione del monastero stesso. Di questo edificio resta il chiostro in rovina, che dona un effetto estremamente suggestivo al complesso. Altro elemento architettonico che merita attenzione all’interno del complesso di edifici è la scala monumentale. Questa venne costruita con un motivo ben preciso: una volta che la città di Lipari venne trasferita sotto il castello, posizione che ricopre ancora oggi, le case all’interno dell’edificio vennero abitate dai “coatti”, i relegati nell’isola. Per non passare in mezzo alle tristi abitazioni abbandonate e occupate abusivamente, il vescovo ordinò la costruzione di una scalinata che portasse direttamente di fronte all’entrata della chiesa. Questa costruzione tagliò un ampio tratto delle fortificazioni spagnole e distrusse i resti degli insediamenti delle età più antiche. Le case all’interno del castello furono definitivamente rase al suolo dal governo fascista. L’anfiteatro, invece, è una costruzione di recentissima data: risale agli anni ’70 del XX secolo. A questi edifici si aggiungono ovviamente le residenze all’interno del palazzo e tutti gli elementi di difesa, riuniti soprattutto nella piazzetta principale della rocca cui si accede dopo esser passati sotto due portoni di età spagnola.
***
San Bartolomeo è il Santo Patrono di Lipari. Il santo era nativo di Cana, fu uno dei dodici apostoli di Cristo e, dopo anni di predicazione e guarigione di malati, fu condannato a morte come molti santi del periodo: venne prima scorticato vivo e poi crocifisso. Secondo la leggenda, la bara contenente il corpo venne gettata in mare e, non colando a picco, venne traslata fino a Lipari. Qui la bara giunse in prossimità della riva. Gli abitanti tentarono di recuperarla dalle acque con la forza delle braccia ma riuscirono a estrarla solo trascinandola con l’aiuto di “due vitelle caste”. A Lipari il culto del santo patrono viene festeggiato in diverse occasioni e in diversi modi. Uno di questi festeggiamenti prevede una processione per le strade della città della statua del Santo Patrono insieme al “Vascelluzzo”. Il Vascelluzzo è una piccola navicella argentata costruita cento anni fa, contenente 2 kg di oro e 30 di argento. Inoltre, custodisce un frammento di pelle di San Bartolomeo. Venne costruita per onorare un avvenimento particolare: durante una carestia un vascello francese giunse a Lipari e scaricò tanto grano da poter sfamare tutti gli abitanti della città. Nessuno riuscì a pagare per questo gesto perché la nave ripartì molto in fretta, sparendo come un miraggio, o un miracolo attribuito a San Bartolomeo.
***
Al Santo vengono attribuiti altri tipi di miracoli, come la protezione dai diversi terremoti che hanno colpito la Sicilia e la guarigione di malati. Una delle storie più famose di guarigione riguarda quella del capitano Giuseppe Virgona che a comando del suo veliero trasportava prodotti eoliani in America. Durante la traversata fu investito da una tempesta che martoriò la nave e costrinse il capitano a buttare in mare il carico. Una delle onde fece volare via dalla nave tutta la ciurma e catapultò il capitano all’interno di una casa, danneggiando gravemente la spina dorsale e precludendogli ogni movimento. Disperato, iniziò a pregare San Bartolomeo che non solo lo salvò dalla morte ma, dopo mesi, gli restituì la possibilità di camminare. Una volta ripresa questa capacità, il capitano dedicò la sua vita al culto del Santo e, inoltre, comprò uno stendardo che ancora adesso, ogni 13 febbraio, viene portato in processione da una famiglia di pescatori aggiudicata fra quelle più in vista dell’isola.
***
L’isola di Lipari fu teatro di uno scontro fra due potenze che per quasi un intero secolo si contesero il controllo del Mediterraneo: Roma e Cartagine. Le guerre puniche furono percepite, ai tempi, come una sorta di guerra mondiale. Tutte le potenze minori, ai tempi, avevano inevitabilmente qualche tipo di rapporto almeno con una delle due potenze e, di conseguenza, anche con l’altra. Se si era alleati di Roma, si era per forza anche nemici di Cartagine. Sia in tempi di pace ma, soprattutto, in tempi di guerra. Questo fu ciò che capitò a Lipari: alleata di Cartagine, inevitabilmente nemica di Roma. Lo scontro, se così si può chiamare, coinvolse la prima flotta romana. I romani, infatti, avevano ben poca esperienza sul mare – a differenza dei cartaginesi – e avevano da poco costruito una flotta considerevole utilizzando come modello una nave cartaginese finita nelle loro mani dopo una manovra sfortunata. La novella flotta romana era comandata dal console Gneo Cornelio Scipione. Il console voleva raggiungere Messina velocemente ed era salpato non con tutta la flotta, ma in tutta fretta con 17 imbarcazioni. Passò così davanti a Lipari, assoggettata da Cartagine e presidiata da un esiguo numero di fanti. Deciso a conquistarla si impossessò immediatamente dell’isola ma non tenne in considerazione un’eventuale risposta da parte delle truppe cartaginesi. Il generale cartaginese Annibale di Giscone, venuto a conoscenza dell’azione romana, mandò un suo generale con 20 scafi alla conquista dell’isola. Boode, il generale cartaginese, assediò e tagliò la via di uscita al console romano che, dopo varie indecisioni, non poté fare altro che arrendersi. Dopo questa disfatta, il console romano venne denominato Asina in quanto si riteneva fossero affette dal timore per l’acqua. Il suo cursus honorum non venne ulteriormente colpito dalla disfatta e i romani, successivamente, riuscirono a riconquistare Lipari, garantendo comunque agli abitanti una buona dose di libertà e la possibilità di coniare moneta.
***
L’allontanamento di personaggi considerati pericolosi e la loro detenzione in luoghi lontani, presumibilmente isole, è fatto storicamente noto e di vecchia data. Già l’ostracismo dei greci e la relegatio in insulam dei romani ne erano un esempio. Le isole Eolie, e in particolare Lipari, vennero usate come luogo di confino sia sotto il Regno d’Italia ma soprattutto durante il periodo fascista. La vita dei confinati, almeno all’inizio, aveva come alloggio il castello. Si veniva infatti alloggiati qui, sotto la stretta sorveglianza della milizia fascista, in uno dei due casermoni costruiti appositamente per ospitare da una parte i detenuti, dall’altra i militi e le forze dell’ordine. Per i coatti era prevista una “mazzetta”, piccola paga giornaliera di dieci lire, ed era consentita la libertà di movimento fuori dal castello fino a un confine prestabilito, controllato e presidiato sempre dalle milizie. Anche i mari erano sorvegliati da motoscafi muniti di mitragliatrici. All’interno della cerchia di vigilanza era anche consentito prendere in affitto un alloggio, scelta attuata da praticamente tutti i detenuti. Che si alloggiasse in albergo o in stanze private, bisognava rispettare gli orari di coprifuoco – 19 di inverno e 21 di estate – mentre chi avesse preso un alloggio era obbligato a tenere la porta aperta per permettere alla polizia di effettuare controlli a piacere. Gli abusi, le violenze e le risse erano all’ordine del giorno. La vita era molto complicata. La testimonianza di Francesco Fausto Nitti è una prova delle difficoltà che si dovevano affrontare, anche solo mentali. Nitti era un impiegato che, dopo l’assassinio di Matteotti è mosso da un istinto morale che lo mette in contatto con la vedova dell’assassinato e lo introduce nel mondo antifascista e, quindi, in reclusione. Anche lui prima alloggiò in albergo e poi in una casa, ma mentalmente era impossibile riuscire a condurre una vita che esulasse dalla mera sopravvivenza. Fu così che decise di scappare insieme ad altri due detenuti, Carlo Rosselli ed Emilio Lussu. Nuotarono fino a un natante, eludendo la sorveglianza, e furono portati prima in Tunisia poi in Francia, riuscendo a sorpassare tutti i controlli ai confini. Da qui in poi, oltretutto, il nostro eroe divenne un fervente antifascista e militante contro le tirannie: fondò il movimento Giustizia e Libertà in Francia, combatté nella guerra civile spagnola contro le truppe di Franco assumendo anche il comando di diversi battaglioni e durante la Seconda guerra mondiale si aggregò alla resistenza francese collaborando con i servizi segreti. Non tutti i tentativi di fuga però furono di successo come quello di Nitti e non tutti i prigionieri arrivarono da anonimi. Furono tenuti al castello importanti personaggi massonici e personaggi come Ferruccio Parri, futuro presidente del governo della liberazione, e scrittori come Juarés Busoni. Vi erano anche provocatori in veste di deportati politici che si facevano chiamare “fascisti dissidenti”, pronti a tutto per rientrare al servizio di quel regime che li aveva prima usati e poi relegati. Come in ogni reclusione che si rispetti, i contatti con l’esterno erano pochi e la posta era controllata in maniera capillare e certosina.
Spunti videoludici
Le potenzialità videoludiche del castello di Lipari sono molte, anche per la sua collocazione su un’isola. In un eventuale gioco di avventura, infatti, questo è il luogo perfetto per creare una base operativa da cui far partire qualsiasi tipo di missione che sia di esplorazione, di razzia o arrembaggio (per esempio in un videogioco di pirati), un’escursione verso qualche altra isola dell’arcipelago eolico sfruttando le loro caratteristiche naturali – come l’isola di Vulcano, piena di rocche e caratterizzata da un vulcano da cui prende il nome – o una spedizione verso la vicina Sicilia. Il castello, poi, è un edificio arroccato a più di 50 metri sopra il livello del mare: può essere teatro di uno scontro con un boss, un dungeon in un videogioco soulslike o comunque in un RPG, sfruttando anche eventualmente la presenza delle chiese come luogo di scontro o nascondiglio per antichi misteri. Nelle dinamiche di un videogioco storico, il castello di Lipari può essere teatro di combattimenti contro pirati sfruttando la sua caratteristica di rocca difensiva verso le incursioni marittime. Anche la reclusione del nostro protagonista nell’isola di Lipari può essere sfruttata come dinamica molto vivace e spunto per intrighi politici.