Abbazia di Sant’Antimo

Descrizione

Nel cuore della Val di Starcia, sorge un’abbazia dalle antiche e leggendarie origini, che fin dall’VIII secolo (dal XII secolo nella sua forma definitiva) funge da dimora per i monaci, rifugio per i pellegrini, e testimonianza della sobria serenità perseguita dall’Ordine dei benedettini. Essa rappresenta inoltre un prezioso esempio di architettura romanica, caratterizzata dall’impiego di pietre locali dalle trame striate e disseminate di pori, quali il travertino e l’alabastro. L’abbazia fu tra le predilette dell’imperatore Carlo Magno, di nobili e potenti feudatari, tra cui il conte Bernardo degli Ardengheschi, e di Santa Caterina da Siena. Ospita una Farmacia monastica, le cui ricette si basano sull’antico sapere dei rimedi naturali, e un’Officina Spirituale che organizza corsi di miniatura, canto gregoriano ed altre attività, mediante cui mettere efficacemente in pratica il fondamento della Regola benedettina: ora et labora.

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Cenni storici

Risale agli anni successivi al 352, anno del martirio del diacono aretino Antimo in Val di Starcia, la realizzazione di un piccolo oratorio in sua memoria. A seguito della maggior fama di un secondo martire di nome Antimo, stavolta di origine romana, il culto venne soppiantato, e ne è un esempio la ricorrenza celebrata dagli abitanti del vicino Castelnuovo dell’Abate ogni 11 maggio, in onore del santo di Roma. È noto che la valle in questione fosse ricca d’acqua, come dimostrato dai ruderi dei condotti dell’ancora esistente “Acqua Arcangela”, e ciò fu determinante nella scelta, da parte dei Longobardi convertiti al cattolicesimo, di far erigere un monastero che, insieme ad altre abbazie, fungesse da ristoro per i viandanti e i pellegrini diretti a Roma. Ciò che resta del complesso monastico sorto in tale occasione, è riscontrabile nella cripta, nel soprastante abside e in alcuni frammenti decorativi recuperati in zona. Nei secoli successivi, molti diplomi imperiali conferenti immunità e/o privilegi agli abati, alla loro comunità, nonché ai loro possedimenti, attestano l’interesse degli imperatori del Sacro Romano Impero nella protezione dell’abbazia. Stesso interesse si ebbe da parte dei Papi altomedievali che, come si evince dalle varie bolle papali arrivate fino a noi, confermavano i benefici concessi dall’Impero e attribuivano privilegi spirituali all’abate, come l’autorità di consacrare chiese. Dopo il 1118 venne costruita la nuova chiesa, quella che possiamo ancora oggi ammirare, grazie alla donazione del conte Bernardo degli Ardengheschi, che donò alla comunità la sua intera eredità. Cresciuta in potere spirituale e temporale, l’abbazia iniziò di lì a poco un declino aggravato dagli scontri con Siena e con le altre potenze locali, per essere definitivamente soppressa nel 1462 da Papa Pio II, appropriatosi dei suoi restanti beni con in mente la realizzazione della rinascimentale Pienza.

Focus narrativi

Narra una leggenda, di cui esistono alcune varianti, che l’origine dell’abbazia sia legata al primo imperatore carolingio, ad un’epidemia di peste, e all’erba miracolosa che la sventò. Nel 781, Carlo Magno ritornava da Roma sulla via longobarda che passava dal monte Amiata. Poco distante dalla via Francigena, il suo viaggio si interruppe a causa di una tremenda pestilenza, abbattutasi sul corteo e sull’esercito che lo proteggeva. L’imperatore si ritirò in preghiera per i suoi uomini, e fu lì che un angelo gli apparve, indicandogli di recarsi sul vicino monte, scoccare una freccia, bruciare l’erba intorno al punto in cui questa si fosse conficcata, e miscelare la polvere ottenuta nel vino da servire ai malati. L’epidemia fu sconfitta, e l’imperatore decise di ricostruire parte del monastero, se non addirittura di costruirlo interamente, come ex voto. Se questa versione trova conferme in documenti successivi dell’imperatore Enrico III, un’altra messa in circolazione da Papa Pio II vedrebbe il miracolo avvenire nell’800, durante il viaggio di Carlo verso Roma per ricevere l’incoronazione, e l’edificio costruito non sarebbe il monastero di sant’Antimo, ma un’antica cappella presso Abbadia San Salvatore, ove oggi si trova la Chiesa della Madonna del Castagno.

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Quando, nel 1377, Caterina da Siena s’interessò dell’abbazia, a capo della quale si trovava il suo stimato discepolo Giovanni di Gano da Orvieto, la situazione era ben lontana dallo splendore vissuto nei secoli precedenti. Le proprietà immobiliari erano diminuite e così avevano fatto le rendite economiche, nonché la disciplina dei monaci, di cui si hanno testimonianze problematiche ed anche casi di incarcerazione. Caterina, in una sua lettera al guglielmita Giovanni, l’aveva esortato a badare i propri fratelli, affinché il demonio non li corrompesse, e ancora, paragonandolo con compassione a un ortolano senza piante nel proprio terreno, a divellerne le zolle restituendogli ordine, per poi estirpare il vizio e seminarle di virtù. La Senese scrisse anche ai governatori di Siena in aiuto dell’abbazia, ammonendoli di lagnarsi di monaci e clerici indisciplinati, per poi impedire a chi vi si interessasse di poter dare il proprio supporto. Due anni dopo, l’abate raggiunse Caterina a Roma per impartirle gli ultimi sacramenti, mentre da lì a un secolo di continuo declino, l’abbazia avrebbe incontrato la sua soppressione.

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Diversi ordini monastici si sono succeduti nella reggenza dell’abbazia. Nata benedettina, e tale rimasta per secoli, fu nel 1291, poco più di un secolo dopo la costruzione della nuova chiesa, che Papa Nicolò IV tentò di ripristinarne la buona fama trasferendovi un nucleo di monaci Guglielmiti, devoti all’eremita di Castiglione della Pescaia, Guglielmo di Malavalle. Questi in verità non fondò nessun ordine monacale: fu il suo discepolo Alberto, che visse con lui l’ultimo anno, a trascriverne vita e insegnamenti nel Consuetudines e Regula sancti Guillelmi, dando origine a una regola di tipo benedettina cistercense. Dopo la soppressione, il degrado e infine il restauro, l’abbazia ha ripreso dal 1992 le attività monastiche grazie a una comunità di Canonici Regolari Premostratensi, seguaci della regola di Sant’Agostino, il cui ordine prende il nome dal luogo di fondazione, il comune di Premonstratum (oggi Prémontré). Dal 2016, l’abbazia è retta dai frati Olivetani, nuovamente di stampo benedettino.

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A partire dal 1462, quando Papa Pio II mise fine all’attività dell’abbazia, questa conobbe un periodo di degrado lungo e sofferto, arrivando a ospitare una cantina nella cripta, una rimessa nella chiesa, e stalle negli altri edifici rimasti. Il cosiddetto “appartamento del Vescovo”, voluto dal parente di Pio II, Agostino Patrizi, per soggiornarvi nelle sue visite alla comunità, era abitato da un mezzadro. Dal 1870 il disinteresse cessò, e la sezione di Siena di Belle Arti rilevò questo luogo, organizzandone i restauri. I primi due architetti chiamati ad eseguire il progetto furono Giuseppe Partini e Luigi del Moro: se i primi due anni di lavori servirono a ripulire la zona dai pezzi crollati e sparsi, rimettendoli in sicurezza nell’abbazia, furono le sette campagne di restauro successive, dal 1872 al 1895, a restituirle dignità e splendore. La chiesa fu in parte riaperta al culto nel 1895, grazie a un Comitato di fedeli presso Castelnuovo dell’Abate, ancora dediti alla venerazione delle statue in legno del Crocifisso e della Madonna, tuttavia rimase quasi abbandonata fino alla fine del XX secolo, periodo in cui vide ulteriori fasi di restauro e stabilizzazione. Tra il 1970 e il 1973, le atmosfere suggestive della località furono ritenute interessanti per la registrazione di alcune scene del film Fratello Sole, Sorella Luna, e fu in quell’occasione che le Belle Arti di Siena si occuparono di rinnovare completamente il tetto, che aveva visto il suo ultimo intervento durante il pontificato di Pio II.

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Oltre alle ricche trame dell’alabastro e del travertino, di cui la chiesa è composta, essa è famosa per la minuziosità delle rappresentazioni che ne decorano i capitelli. Il più noto, attribuito al Maestro di Cabestany (XII secolo), rappresenta scene tratte dal libro VI del profeta Daniele: da quando il re di Persia, Ciro, lo condanna a morire nella fossa dei leoni su insistenza dei suoi consiglieri, a quando le preghiere del profeta vengono ascoltate, e un angelo conduce da Daniele il profeta Abacuc con del cibo, fino al sesto giorno in cui si ha la conversione del re, che trova Daniele ancora vivo, e alla conclusione della storia, coi satrapi divorati dai leoni al posto del profeta. Altri capitelli rappresentano animali e creature mostruose di fantasia, talvolta ispirati all’Antico e al Nuovo Testamento: una sfinge alata dal corpo bovino, dei leoni monocefali, cani che si rincorrono, teste di ariete, un centauro nell’atto di cacciare, aquile, grifoni. Un bassorilievo al di fuori del campanile, dalle forme molto rigide, mostra una Madonna con in braccio Gesù Bambino, incorniciata dalle figure dei Quattro Evangelisti, e da un piccolo san Michele Arcangelo nell’atto di uccidere il drago. La figura di Michele era tra le predilette dei Longobardi, all’epoca della conversione al Cristianesimo, in quanto nella sua tradizionale raffigurazione, armato di spada e scudo nella lotta contro il Male, rivedevano il nordico dio Odino.

Spunti videoludici

La particolarità di Sant’Antimo è la capacità di evocare una suggestione continua: dalla cornice della Valle che la inquadra con dolci curve puntellate di cipressi, alla struttura in sé, con i suoi bassorilievi ricchi di simbologie, e i giochi della luce che, dalle poche bifore e monofore, danza di ora in ora tra le sobrie navate. Queste, riempite dai canti dei monaci, dalle vibrazioni dell’altare, costruito sul punto d’incontro di tre fiumi sotterranei, suggeriscono storie intrise di mistero, che se ambientate nei momenti meno felici dell’Abbazia, potrebbero sfociare in una riuscita narrazione orrorifica: un survival horror sarebbe in grado di rendere appieno tale densità di suggestione e misticismo. Ma se dipinta con tinte meno scure, l’abbazia consente di viverne la storia in maniera serena, come si potrebbe realizzare in un pittoresco walking simulator. Volendo far rivivere i tempi della sua massima espansione, quando i territori dell’abate andavano ben oltre i confini della Val di Starcia, si potrebbe organizzare un gestionale con l’Abbazia come fulcro delle attività.

[Bibliografia]

– Luchini, L., Sora, A., L’Abbazia di Sant’Antimo, Città di Castello, Sillabe, 2017;
– Angelelli, W., Gandolfo, F., Pomerici, F., Aula Egregia. L’Abbazia di S. Antimo e la scultura del XII sec. nella Toscana meridionale, Napoli, Paparo, 2009.

[Sitografia]

Sito ufficiale
Viaggiare in Toscana

[Scheda Film Commission]

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